Il viaggio- Mont Saint-Michel

Viaggiare significa allontanarsi dalla tediosa, ma spesso anche rassicurante, quotidianità ed esplorare posti nuovi, che possono essere incontaminati luoghi naturali ma anche affollate metropoli dove svettano imponenti grattacieli, capolavori dell’architettura moderna.

Nella nostra cultura, il viaggio per antonomasia è quello di Ulisse che, dopo la conquista di Troia, non torna a casa come gli altri principi greci, ma intraprende un itinerario di conoscenza, anche interiore, che lo porterà a stare lontano dalla sua terra per altri dieci anni.

Il suo viaggio non è una fuga dalle responsabilità o un desiderio di allontanarsi dalla sua isola natia, ma una profonda esigenza interiore di conoscere nuovi lembi di terra che sempre convive con la struggente nostalgia per la sua Itaca.

Successivamente viaggiare è stato spesso funzionale a qualche altra esigenza, come quella nel corso del Medioevo del pellegrinaggio, oppure il gran tour settecentesco che i colti aristocratici facevano per vistare le vestigia del passato, soprattutto in Italia che ne è particolarmente ricca.

Forse solo con Vittorio Alfieri si riscopre il viaggio come insopprimibile bisogno interiore e il suo “forte sentire” lo possiamo comprendere bene nella sua autobiografia “La vita scritta da esso”, opera molto fruibile anche per i lettori contemporanei, nonostante il linguaggio settecentesco.

Al giorno d’oggi è difficile trovare qualcuno che non abbia esperienze di viaggi, ma ognuno le vive in maniera diversa, a secondo della sua sensibilità e al proprio vissuto.

Ora vi parlerò di una delle mie esperienze più significative, quella della visita in Normandia di Mont Saint-Michael, un luogo che galleggia tra mito e realtà.

Di primo mattino, dopo aver solcato chilometri e chilometri di suolo normanno, giunsi nei pressi dell’isolotto di Mont Saint-Michel, meta della mia escursione di quel giorno. La sua forma conica che spuntava dal mare scintillante mi era già apparsa molto tempo prima che arrivassi a destinazione e, pur da così lontano, mi procurò un’emozione intensa, come di qualcosa vagheggiato a lungo e che finalmente ci appare allo sguardo.

Lasciata l’auto, mi incamminai attraverso la passerella che da pochi anni collegava l’isolotto alla terra ferma. Per molto tempo, al suo posto c’era stata una brutta strada costruita su un terrapieno che impediva all’acqua di passare da una parte all’altra, provocando l’accumulo di sabbia che avrebbe causato presto, in mancanza di un intervento, la perdita della caratteristica tipica dell’isola.

Intorno l’alta marea riempiva tutti gli spazi che gli erano consueti e dal mare veniva un vento sostenuto che sferzava il viso e la pelle delle braccia, che erano scoperte.

A mano a mano che procedevo, lo sguardo era sempre rivolto alla rocciosa collina sormontata dall’abbazia che, imponente, si approssimava sempre di più.

Entrai dalla porta della cittadina e mi ritrovai su una stradina affollatissima di turisti che si arrampicava, avvolgendo il colle, verso il punto più in alto. Ma né la presenza straripante di persone, né quella fitta di negozi di souvenir e posti dove mangiare, riuscivano a scalfire la magia di quell’ascesa che sembrava avere qualcosa di mistico.

Ogni tanto mi allontanavo dalla strada e mi affacciavo sul mare che circondava completamente l’isolotto in attesa di piccoli segnali che avvertivano di cambiamenti in corso.

Dopo aver contemplato il cielo e l’increspata distesa marina, guardando verso terra, cominciai a scorgere i primi segni di una secca che anticipavano il ritiro delle acque.

Continuai a salire fino a che non giunsi fino all’ingresso dell’abbazia di San Michele e, dopo aver dato un’ultima occhiata all’esterno, mi immersi nei grandi saloni dominati dalle possenti colonne romaniche e immaginai la vita che conducevano i monaci, lontano dai tumulti del mondo esterno, avvolti nel rassicurante abbraccio del silenzio.

L’isola nel corso della storia non era stata mai conquistata da chi veniva dal mare, proprio perché protetta dalla marea che si ritirava e avanzava così velocemente che era impossibile avvicinarla da parte di navi nemiche.

Quando mi ritrovai all’aria aperta, fui sorpresa di scorgere ampie distese di secca nella zona più vicina alla costa. La marea si ritirava rapidamente e, dopo aver pranzato, mi resi conto che anche verso l’esterno, la pianura d’acqua aveva lasciato il posto ad una superficie limacciosa dove pesci poco accorti venivano cacciati facilmente dai gabbiani.

Oltre Mont Saint-Michel, sorgeva l’isolotto di Tombelaine che, quando la secca raggiungeva la sua massima espansione, poteva essere raggiunta a piedi, camminando a piedi nudi sulla distesa di fango.

Si racconta che talvolta in passato i pescatori, che si erano attardati nelle zone di secca, erano stati sorpresi dal ritorno della marea che saliva, così si diceva, al ritmo di cavalli al galoppo. Pare inoltre che siano presenti ancora oggi delle sabbie mobili e la gente del luogo sconsiglia di avventurarsi da soli, ma di andare sempre con una guida.

Nonostante queste raccomandazioni, erano diverse le persone che si erano incamminati verso l’isolotto di Tombelaine e anch’io, una volta scesa in basso, mi tolsi le scarpe, mi tirai su i pantaloni e cominciai ad avanzare verso il largo. Ma l’acqua, che cominciava da lontano a tornare sui suoi passi, mi indusse a tornare indietro dopo poche decine di metri dalla partenza.

Nel giro di poche ore tutta la baia sarebbe stata di nuovo coperta dal mare.

Come accadeva tutti i giorni. Da sempre.

La casa al mare

L’oscurità era calata e un vento fresco cominciava a soffiare dall’immensa distesa appena increspata. Nel piccolo borgo gremito di case per le vacanze si accendevano le fioche luci dei lampioni.

L’estate era finita da un po’ ma la famiglia di Luca, un ragazzino di undici anni gracile e pacato, approfittando delle tiepide giornate di ottobre, tornava quasi tutti i fine settimane nel paese dove trascorreva la bella stagione.

La vista era suggestiva e le acque cristalline invitavano ad azzardare ancora qualche bagno nelle ore centrali della giornata.

La famiglia di Luca spesso ospitava anche una coppia di amici che aveva un figlio tredicenne, Nico. I due con il tempo erano diventati amici e trascorrevano volentieri il tempo insieme quando si trovavano in vacanza.

Nico conosceva bene la zona in quanto da bambino vi aveva vissuto per qualche anno. Poi i suoi genitori avevano deciso di trasferirsi in città per esigenze di lavoro, ma a lui era sempre rimasta la nostalgia degli spazi aperti dove scorrazzare in piena libertà. Dalle finestre delle case di pietra poi si poteva vedere luccicare il mare e inebriarsi del suo profumo.

Quella sera il paese era frequentato, oltre che da nostalgici turisti, solo dai pochi residenti che vi abitavano tutto l’anno. Dopo cena i genitori di Luca e Nico si erano seduti intorno al tavolino di una gelateria e loro potevano muoversi tranquillamente per il paese. Era un luogo familiare dove non sembrava esserci alcun pericolo

Dopo essersi aggirati per vicoli e piazze parlando della giornata appena trascorsa, visto che era ancora presto, Nico propose all’amico di allontanarsi dal centro ed esplorare i dintorni del paese.

“Ma non ci sono le luci” obiettò perplesso Luca.

“Come no? Ci sono le luci del campetto da calcio che sono ancora accese” rispose Nico

“Non dovremmo avvertire i nostri genitori?”

“Ci allontaniamo solo un po’ e poi ci farebbero problemi”

“Allora arriviamo solo fino a dove vediamo, poi torniamo indietro” propose Luca.

“D’accordo! Ma non avrai paura, vero? In fondo sarà una delle ultime volte che verremo qui, prima che torni la primavera. Approfittiamone”

I due ragazzi arrivarono fino alle ultime abitazioni del paese, le oltrepassarono e presero una strada sterrata che portava al campo sportivo e proseguiva verso il centro dell’isola. Si fermarono davanti al reticolato che circondava il campo, sul quale due squadre rincorrevano il pallone gridando e incitandosi. Ma nessuno dei due era davvero appassionato di calcio.

Dopo qualche minuto, Nico mosse alcuni passi verso il sentiero che si inoltrava verso l’interno.

“Dove stai andando?“ chiese allarmato Luca

“Dài, ci allontaniamo solo di qualche passo. Cosa vuoi che succeda? Di giorno questa strada l’abbiamo fatta milioni di volte”

Luca voleva tornare indietro ma allo stesso tempo aspirava ad immergersi in una nuova avventura.

Si decise a seguire l’amico che ormai era avanti almeno cinque sei metri rispetto a lui e lo raggiunse rapidamente. Nico non sembrava avere paura o forse voleva solo dimostrare che era più grande e andava avanti a testa alta, senza esitazioni.

Il campo di calcio con i suoi schiamazzi si allontanava sempre di più e le luci diventavano sempre più fioche.

Nel cielo splendeva la luna che mostrava la strada da percorrere, ma i rumori della vegetazione e degli animali notturni cominciavano ad assumere connotati meno familiari.

Luca con il fiato sospeso camminava tallonando Nico che continuava ad avanzare deciso. Avrebbe voluto chiedergli di tornare indietro, ma non ne aveva il coraggio. Voleva dimostrare di essere cresciuto, di non avere paura di una passeggiata notturna in un luogo noto.

Ad un certo punto, il vento che si era fatto più impetuoso, fece oscillare in modo deciso la chioma degli alberi sotto cui stavano passando, la luna scomparì dietro le nuvole e il buio intorno a loro si fece quasi completo.

Luca si attaccò al braccio dell’amico e, mettendo da parte l’orgoglio, quasi lo supplicò di tornare indietro.

“Non vedi che è solo il vento?” Gli rispose Nico, in modo brusco.

Un’altra folata attraversò l’aria e fece cadere qualcosa dall’alto, forse dei piccoli ramoscelli o delle foglie dall’albero sovrastante. Luca fece un salto ma non osò dire niente. Continuavano ad andare avanti fino a quando Nico si arrestò e di colpo perse il suo fare baldanzoso, irrigidendo ogni muscolo del corpo.

Davanti a loro, al di là dei cespugli della macchia mediterranea, videro accendersi due occhi giallastri che li fissavano dall’oscurità. Non vedevano altro che quelle due luci intense che perforavano il buio, come se fossero sospese nel nulla. Nello stesso istante un verso stridulo squarciò la notte facendo accapponare la pelle ai due amici.

Cominciarono a correre a perdifiato nella direzione opposta, incespicando sul terreno che pochi minuti prima sembrava privo di ostacoli. Non sapevano bene dove stavano andando, né se la direzione era quella giusta ma continuavano a filare con il cuore in gola.

Mentre correvano avevano l’impressione che esseri invisibili li sfiorassero e a tratti cercassero di trattenerli ingigantendo la loro paura.

Ma dopo un tempo che era sembrato infinito e quasi senza più fiato, si resero conto di essere ancora immersi nel buio più profondo. Non c’era traccia né delle luci del campo di calcio né tanto meno di quelle del paese.

Fu allora che davanti a loro si spalancarono di nuovo quegli orribili occhi gialli che ora sembravano più vicini e minacciosi. Ormai in preda al panico, senza via di uscita, si addossarono contro l’enorme tronco di un albero mentre la creatura spaventosa si avvicinava emettendo latrati terrificanti.

Vinti dalla disperazione, si rannicchiarono verso il basso, aspettando la fine.

Luca si svegliò di soprassalto, completamente sudato. Il cuore gli batteva all’impazzata ma, pur con una certa fatica, si rese conto di essere al sicuro nella sua stanza.

Resistette all’impulso di rifugiarsi nel letto dei suoi genitori, come quando era piccolo, ma decise con una certa fermezza che non avrebbe tentato imprese notturne, almeno per il momento.

Aveva ancora bisogno del caldo e rassicurante nido domestico.

GIACOMO LEOPARDI – L’INFINITO

Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare.

I compiti per le vacanze

Sui compiti da assegnare per le vacanze esistono tra i docenti opinioni discordanti.

Ci sono insegnanti convinti che l’estate sia sacra e che quindi non bisogna gravare i ragazzi e i genitori con tediose richieste di compiti a casa; quelli che chiedono soprattutto di leggere libri e, eventualmente, compilare una scheda di lettura; oppure docenti che sono dell’idea che tre mesi senza aprire un libro siano decisamente troppi e hanno cura di scegliere e caldamente consigliare un testo per le vacanze dove i ragazzi possano ripassare e consolidare gli argomenti principali svolti nel corso dell’anno.

Se prevale quest’ultima opzione, in ogni classe in genere sono presenti almeno tre o quattro ragazzi coscienziosi che completeranno, lavorando regolarmente per tutto l’arco dell’estate, il testo assegnato e arriveranno a settembre pronti per affrontare il nuovo anno scolastico. Forse altri sette o otto alunni cercheranno di svolgere il lavoro assegnato con alterna fortuna, costretti a tralasciare una parte consistente del libro in quanto, a loro dire, troppo difficile.

Infine, se vi troverete a fine agosto in una località di mare, sarà possibile assistere a dialoghi di questo tipo tra le madri presenti:

Mamma poco abbronzata: “Ma a te quante te ne mancano?”

Mamma molto abbronzata: “Io ne ho ancora metà. E a te?”

Mamma poco abbronzata: “Io mi ci sono messa nelle ultime settimane e l’ho quasi finito”

Mamma molto abbronzata:“Brava! Quest’anno hai lavorato bene! Io mi sono scocciata con questa storia. Ora lo faccio finire a lui. Io a scuola ci sono già stata…”

Giuseppe Ungaretti- Selezione di poesie

STASERA

Balaustrata di brezza
per appoggiare stasera
la mia malinconia.

NATALE

Non ho voglia
di tuffarmi
in un gomitolo
di strade

Ho tanta
stanchezza
sulle spalle

Lasciatemi così
come una
cosa
posata
in un
angolo
e dimenticata
Qui
non si sente
altro
che il caldo buono
Sto
con le quattro
capriole
di fumo
del focolare.

ALLEGRIA DI NAUFRAGI

E subito riprende
il viaggio
come
dopo il naufragio
un superstite
lupo di mare.

Sandro Penna- Poesie della leggerezza

Io vivere vorrei addormentato

Io vivere vorrei addormentato

entro il dolce rumore della vita. 



Il mare è tutto azzurro

Il mare è tutto azzurro.
Il mare è tutto calmo.
Nel cuore è quasi un urlo
di gioia. E tutto è calmo.



E' bello lavorare

E’ bello lavorare

nel buio di una stanza

con la testa in vacanza

lungo un azzurro mare.

Scuola

Negli azzurri mattini
le file svelte e nere
di collegiali. Chini
sui libri poi. Bandiere
di nostalgia campestre
gli alberi alle finestre.

Giorgio Caproni

Maggio

Al bel tempo di maggio le serate
si fanno lunghe; e all'odore del fieno
che la strada, dal fondo, scalda in pieno
lume di luna, le allegre cantate
dall'osterie lontane, e le risate
dei giovani in amore, ad un sereno
spazio aprono porte e petto. Ameno
mese di maggio! E come alle folate
calde dall'erba risollevi i prati
ilari di chiarore, alle briose
tue arie, sopra i volti illuminati
a nuovo, una speranza di grandiose
notti più umane scalda i delicati
occhi, ed il sangue, alle giovani spose.

Versi quasi ecologici

Non uccidete il mare, 
la libellula, il vento. 
Non soffocate il lamento 
(il canto!) del lamantino. 
Il galagone, il pino: 
anche di questo è fatto 
l’uomo. E chi per profitto vile 
fulmina un pesce, un fiume, 
non fatelo cavaliere 
del lavoro. L’amore finisce dove finisce l’erba 
e l’acqua muore. Dove 
sparendo la foresta 
e l’aria verde, chi resta 
sospira nel sempre più vasto 
paese guasto: Come 
potrebbe tornare a essere bella, 
scomparso l’uomo, la terra»


Baudelaire- L’albatro e il poeta

Charles Baudelaire – L’ALBATRO

Spesso, per divertirsi, le ciurme
catturano degli albatri, marini grandi uccelli,
che seguono, pigri compagni di viaggio,
il veliero che scivola sugli amari abissi.
E li hanno appena deposti sul ponte,
che questi re dell’azzurro, impotenti e vergognosi,
abbandonano malinconicamente le grandi ali candide
come remi ai loro fianchi.
Questo alato viaggiatore, com’è goffo e leggero!
Lui, poco fa così bello, com’è comico e brutto!
Qualcuno gli stuzzica il becco con la pipa,
un altro scimmiotta, zoppicando, l’infermo che volava!
Il poeta è come il principe delle nuvole
Che abituato alla tempesta ride dell’arciere;
esiliato sulla terra fra gli scherni,
non riesce a camminare per le sue ali di gigante.

J. Swift- “I viaggi di Gulliver”

I viaggi di Gulliver” è un romanzo pubblicato da Jonathan Swift nel 1726.

Inizialmente ritenuto un libro per ragazzi, a causa della presenza di avventure e invenzioni fantasiose, ben presto fu chiaro che l’intento dell’autore era quello di fare una feroce satira della società contemporanea inglese e francese.

Infatti Swift narra le vicende del chirurgo di bordo Gulliver con un occhio che si rivolge costantemente alla realtà storica del Settececento e della condizione dell’uomo in generale.

L’autore fa il resoconto dei viaggi presso popoli singolari e ognuno dei viaggi diventa il pretesto per irridere i meccanismi della politica, l’avidità dell’uomo, l’assurdità del sistema giudiziario e dei pretesti per scatenare le guerre.

I viaggi per mare portano Gulliver prima nel regno di Lilliput, rispetto ai cui abitanti lui è un gigante; poi in quello degli uomini giganti, dove è un essere piccolo e indifeso, in un continuo cambio di prospettiva e del punto di vista che mettono in rilievo la precarietà della condizione dell’uomo.

Passando dall’isola volante di Laputa e dalla terra di Lagado, giunge nel luogo dove cavalli intelligenti regnano su omuncoli ripugnanti sia fisicamente che moralmente ai quali, suo malgrado, il protagonista si accorge di assomigliare.

Il soggiorno tra questi nobili e saggi esseri gli permette di migliorare costantemente e di capire che per vivere bene non è necessario avere più del necessario. Ma la sua imperfetta condizione lo costringerà ad allontanarsi anche da questa terra di pace, in quanto non ritenuto degno, e a tornare in patria dove per molti anni dovrà combattere con il disgusto che i suoi simili gli provocano, ora che riesce a vederli con la luce della verità, cioè come essere egoisti, viscidi, litigiosi e dalle continue brame inappagabili.
Un romanzo sempre attuale nonostante sia stato scritto all’inizio del Settecento in cui si parla di avventure per mare ma allo stesso si fa una spietata satira della società che lascia poco spazio ad una possibile redenzione.

“Il primo viaggio”

Eravamo ormai quasi a fine luglio e il caldo si era fatto opprimente. Marco aveva sostenuto l’ultimo esame prima delle vacanze estive e ora, con un misto di ansia e eccitazione, aspettava il momento di partire per il suo primo viaggio all’estero.

Con i suoi genitori non si era mai allontanato troppo da casa, a parte qualche incursione nel paese nativo dei suoi per andare a trovare nonni e zii. Il padre lavorava molto e, quando finalmente riusciva a raggiungere le sospirate ferie, preferiva starsene a casa a rilassarsi e a godersi la tranquillità della casa di campagna dove viveva.

Quando era bambino, anche Marco apprezzava gli spazi aperti della natura che si aprivano intorno alla sua abitazione. Poteva girare in bicicletta in lungo e in largo, passeggiare lungo il fiume, costruire, insieme ai cugini, carretti, zattere e ponti di canne che adagiavano sulle rive del corso d’acqua.

Da piccolo, vivere in campagna può essere pieno di opportunità ma, quando cominci a crescere, e vorresti allargare i tuoi orizzonti e le tue conoscenze, non è più così piacevole e in certi momenti ti senti come in una prigione da cui vorresti evadere.

Marco era un ragazzo piuttosto silenzioso e non aveva mai avuto molti amici ma, approdato all’università, era riuscito ad inserirsi in un gruppo che organizzava qualche uscita e, finalmente, qualche viaggio che lo portasse lontano dai luoghi e dalle occupazioni della quotidianità.

Quell’estate la meta prescelta era stata la Scozia. Aveva visto foto bellissime sui paesaggi e i castelli scozzesi e, quando qualcuno degli amici aveva proposto questa destinazione, aveva aderito con entusiasmo.

Ora l’attesa era finita e, dopo un viaggio in aereo di qualche ora, atterrarono all’aeroporto di Londra; da qui avrebbero proseguito in autobus fino ad Edimburgo.

Viaggiarono di notte, quasi senza riuscire a dormire e, scesi dal pullman, percepirono subito l’aria frizzante del paese nordico che li fece rabbrividire. Ma l’entusiasmo prese rapidamente il sopravvento e, dopo aver indossato qualcosa di più caldo, cominciarono ad aggirarsi per la città, cullati dal suono delle cornamuse che riecheggiava praticamente ovunque, percorrendo strade dove si affacciavano edifici storici.

Edimburgo gli piaceva molto ma sentiva che l’anima più profonda della Scozia era altrove e cominciò a desiderare di iniziare il tour che lo avrebbe portato in luoghi remoti e quasi disabitati.

Dopo alcuni giorni andarono a ritirare la macchina a noleggio che avevano prenotato e, dopo alcune difficoltà legate alla guida a destra, cominciarono l’itinerario che avevano progettato a tavolino, quando si erano trovati per organizzare il viaggio.

Trascorsero solo poche decine di minuti prima che si aprissero davanti a loro paesaggi sconfinati dove castelli che si specchiavano sui laghi si alternavano a colline verdeggianti. Sopra di loro, le nuvole, mosse dal vento che non si arrestava quasi mai, mettevano in scena uno spettacolo di luci e ombre che si riverberava sulla terra e sulle acque sottostanti creando sempre nuove sfumature e combinazioni di colori.

Marco era incantato da questo caleidoscopio naturale e sentiva che quella terra si accordava al suo animo un po’ malinconico ma, allo stesso tempo, voglioso di immergersi nella vita e di viverla intensamente. Era come se si fosse liberato da un suo modo di essere che ormai da qualche anno gli stava un po’ stretto, fatto di troppe esitazioni e permeato dalla storica timidezza; solo ora sentiva che poteva cominciare a cogliere i frutti che la vita gli avrebbe riservato.

Tutto quel viaggio rimase impresso nella mente di Marco per lungo tempo ma ci furono alcuni momenti che furono scolpiti in modo indelebile dentro di lui.

Il primo fu la ricerca, nelle propaggini più settentrionali della Scozia, dove si poteva guidare per ore senza trovare tracce di esseri umani, di un castello costruito a picco su una scogliera.

Quando scesero dalla macchina cominciarono a dirigersi verso la costa, addentrandosi in una nebbia che diventava sempre più fitta. Camminarono  per almeno mezz’ora, cambiando più volte direzione, non avendo punti di riferimento concreti; ma ad un certo punto avvertirono il suono del mare che, a mano a mano che si avvicinavano, si faceva sempre più intenso per il ritmico impatto con la scogliera.

Guardando con attenzione, cominciarono a scorgere i tratti di una costruzione che sembrava emergere dal nulla: erano i resti del castello che stavano cercando. Si aggirarono per un po’ di tempo tra le stanze e i muri in rovina, immersi nella nebbia lattiginosa, quasi intontiti dal rumore assordante delle onde.

Poi tornarono sui loro passi e Marco si girò più volte a rimirare i contorni  del castello che diventavano sempre più tenui fino a scomparire.

L’altro momento significativo fu ad Oban, sulla costa occidentale, quasi alla fine del viaggio. Erano giunti in questo paese di pescatori dopo la spettacolare incursione sull’isola di Sky, dove cielo e acque sembravano confondersi, rispecchiandosi reciprocamente.

La sera uscirono sotto la tipica pioggerellina britannica, così lieve che sembrava rimanere a mezz’aria. Entrarono dentro un locale e socializzarono con la gente del luogo che anche in quell’occasione si mostrò allegra e ospitale.

La mattina, dopo la colazione e in attesa di rimettersi in marcia per l’ultima tappa, Marco si sedette davanti alle grandi vetrate che davano direttamente sul mare, contemplando l’azzurra immensità, e pensò che non avrebbe mai voluto andarsene da lì.

Ma sapeva che fuori la vita lo stava aspettando.