Dante Alighieri, Inferno XXVI, Ulisse, vv. 112-126

«”O frati,” dissi, “che per cento milia 112
perigli siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigilia

d’i nostri sensi ch’è del rimanente 115
non vogliate negar l’esperïenza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.

Considerate la vostra semenza: 118
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza”.»


Li miei compagni fec’io sì aguti, 121
con questa orazion picciola, al cammino,
che a pena poscia li avrei ritenuti;

e volta nostra poppa nel mattino, 124
de’ remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino.

Parafrasi

“O fratelli” dissi (parla Ulisse) “che per cento mila

pericoli siete arrivati presso il confine occidentale (del mondo conosciuto)

a questa così importante breve vigilia (veglia)

dei nostri sensi di ciò che rimane da vedere

non negate l’esperienza

dietro al sole (l’occidente), del mondo disabitato.

Considerate la vostra origine:

non siete nati per vivere come animali

ma per seguire la virtù e (apprendere) la conoscenza”

I miei compagni feci io così accesi di desiderio

con questo breve discorso, al cammino,

che appena poi li avrei trattenuti;

e rivolta la nostra poppa verso oriente (quindi la prua in direzione dell’occidente)

rendemmo i remi ali al folle volo

sempre procedendo verso sinistra

Commento

Ci troviamo nell’ottava bolgia dove si punisce il cattivo uso dell’ingegno utilizzato in contrasto con le norme morali e religiose. In questo canto troviamo Ulisse che con un abile trucco riuscì a far entrare guerrieri armati nella città di Troia e rendendo possibile la vittoria degli Achei nella guerra che ormai si trascinava per dieci anni.

Ma l’atteggiamento di Dante non è di disprezzo di fronte all’eccellenza dell’ingegno che è un dono di Dio. Infatti decide di raccontare non la colpa per cui Ulisse è punito all’Inferno ma la sua smisurata brama di conoscenza che lo portano a varcare con pochi compagni le colonne d’Ercole, ovvero il limite delle acque conosciute e a lanciarsi nell’oceano aperto.

I versi riportano “l’orazion picciola” con cui Ulisse convince i compagni a tentare l’ennesima impresa, quella di andare ad esplorare terre disabitate dove nessun uomo è stato mai.

Il suo discorso riesce a fare leva in modo così potente sugli animi dei compagni che dopo li avrebbe trattenuti a stento.

Ma all’impresa che tenta non può essere sufficiente solo l’umana ragione e, non potendo avere l’aiuto della Grazia, il suo “folle volo” finisce in tragedia e muore travolto dalle onde.

Il viaggio di Ulisse fallisce perché si affida solo alle forze e all’ingegno dell’uomo e si contrappone a quello di Dante che è sostenuto dalla Grazia divina.

Dante Alighieri, Purgatorio I, vv. 115-117

L’alba vinceva l’ora mattutina

che fuggia innanzi, sì che di lontano

conobbi il tremolar della marina.

Parafrasi

L’alba soverchiava (=prevaleva su) l’ora mattutina (l’ultima ora della notte)

che fuggiva davanti (alla luce dell’alba), in modo tale che da lontano

riconobbi (=riuscii a distinguere) il tremolare del mare.

Commento

Dante e Virgilio, dopo aver concluso il viaggio nell’Inferno, si ritrovano sulla spiaggia ai piedi della montagna del Purgatorio.

Il sole non è ancora sorto e i due viandanti si trovano sulle rive dell’oceano, in un’isoletta dell’emisfero meridionale, dove secondo Dante si trova il Purgatorio.

A guardia del Purgatorio, Dante mette Catone l’Uticense, un uomo il cui aspetto genera subito riverenza (grande rispetto). Catone fu tenace difensore degli ideali repubblicani nella Roma del I secolo avanti Cristo. Per questo si oppose fino alla fine a Cesare e, quando capì che non poteva fare più nulla, si tolse la vita in Utica, nel Nord Africa.

Catone chiede a Dante e Virgilio come hanno fatto a risalire l’Inferno ed essere approdati alle porte del Purgatorio.

Virgilio lo rassicura dicendo che hanno intrapreso questo viaggio per l’intervento di una donna (Beatrice) che è discesa dal cielo, quindi il loro andare non è contro la volontà divina.

Catone allora dice loro che si devono purificare prima di proseguire il viaggio. Li indirizza verso la spiaggia dove Virgilio dovrà lavare il viso di Dante con la rugiada e cingere i suoi fianchi con un giunco, pianta simbolo di umiltà.

E dove Virgilio strappa un giunco, subito ne nasce un altro.

I versi riportati sopra si riferiscono al momento in cui la luce dell’alba prevale sull’ultima ora della notte (l’ora mattutina della preghiera del breviario) per cui, quasi come un prodigio, da lontano Dante riconosce, alla luce nascente, il tremolare del mare.

Una terzina che rimane scolpita nella memoria del lettore del Sommo Poeta.

Dante Alighieri- Inferno- Canto XIII- La selva dei suicidi, vv. 1-15

Non era ancor di là Nesso arrivato,
quando noi ci mettemmo per un bosco
che da neun sentiero era segnato. 3

Non fronda verde, ma di color fosco;
non rami schietti, ma nodosi e ’nvolti;
non pomi v’eran, ma stecchi con tòsco. 6

Non han sì aspri sterpi né sì folti
quelle fiere selvagge che ’n odio hanno
tra Cecina e Corneto i luoghi cólti. 9

Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno,
che cacciar de le Strofade i Troiani
con tristo annunzio di futuro danno. 12

Ali hanno late, e colli e visi umani,
piè con artigli, e pennuto ’l gran ventre;
fanno lamenti in su li alberi strani. 15

Parafrasi

Non era ancora dall’altra parte Nesso arrivato,

quando noi ci incamminammo per un bosco

che non era segnato da nessun sentiero.

Non fronda verde, ma di colore scuro;

non rami dritti, ma intrecciati e contorti;

non frutti vi erano ma spine con veleno:

non abitano così aspri né folti arbusti

quegli animali selvatici che rifuggono

tra (il torrente) Cecina e (la Cittadina di) Corneto i luoghi coltivati,

Qui fanno i loro nidi le ripugnanti Arpie,

che cacciarono dalle isole Strofadi i Troiani

con una triste profezia di pene future.

Hanno ali larghe, colli e visi umani,

piedi con artigli e pennuto l’ampio petto;

fanno lamenti terrificanti sugli alberi.

Piccolo commento

Dopo aver attraversato il fiume infernale Flegetonte in groppa al centauro Nesso, Dante e Virgilio si inoltrano in una selva di sterpi contorti e scuri con spine velenose. Qui si annidano le Arpie, ripugnanti uccelli con volto di donne e corpo di uccelli rapaci.

Virgilio racconta nell’Eneide che Enea e i suoi compagni, giunti sulle isole Strofadi, furono disturbati da questi uccelli che sporcarono di sterco le loro mense.

In questo bosco, si sentono lamenti umani che provengono dai rami lacerati.

Nei pruni si nascondono gli spiriti dei suicidi che neanche dopo il giudizio universale torneranno a rivestirsi del corpo, visto che si sono dati la morte da soli.

Dante Alighieri- Inferno- Canto VI- Cerbero, vv. 7-33

Io sono al terzo cerchio, de la piova
etterna, maladetta, fredda e greve;
regola e qualità mai non l’è nova. 9

Grandine grossa, acqua tinta e neve
per l’aere tenebroso si riversa;
pute la terra che questo riceve. 12

Cerbero, fiera crudele e diversa,
con tre gole caninamente latra
sovra la gente che quivi è sommersa. 15

Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra,
e ’l ventre largo, e unghiate le mani;
graffia li spirti ed iscoia ed isquatra. 18

Urlar li fa la pioggia come cani;
de l’un de’ lati fanno a l’altro schermo;
volgonsi spesso i miseri profani. 21

Quando ci scorse Cerbero, il gran vermo,
le bocche aperse e mostrocci le sanne;
non avea membro che tenesse fermo. 24

E ’l duca mio distese le sue spanne,
prese la terra, e con piene le pugna
la gittò dentro a le bramose canne. 27

Qual è quel cane ch’abbaiando agogna,
e si racqueta poi che ’l pasto morde,
ché solo a divorarlo intende e pugna, 30

cotai si fecer quelle facce lorde
de lo demonio Cerbero, che ’ntrona
l’anime sì, ch’esser vorrebber sorde.

Parafrasi

Io mi trovo nel terzo cerchio, della pioggia

eterna, maledetta (perché nuoce), fredda e pesante;

ritmo e natura non gli è mai nuova (cade sempre uguale a sé stessa).

Grandine grossa, acqua scura e neve

attraverso l’aria tenebrosa si riversa;

puzza la terra che questa mescolanza riceve.

Cerbero, bestia crudele e mostruosa,

con tre teste (gole) latra come fanno i cani

sopra la gente che qui è affogata (sommersa).

Gli occhi ha di color rosso vivo (vermigli), la barba unta e sudicia,

il ventre ampio, e le mani con artigli;

graffia gli spiriti, scuoia e squarta.

La pioggia li fa urlare come cani:

dell’un dei lati (del corpo) fanno a l’altro riparo;

si volgono spesso i miseri peccatori.

Quando ci scorse Cerbero, il grande verme,

le bocche aprì e ci mostrò le zanne;

non aveva membro che tenesse fermo.

E la mia guida (duca) distese le sue mani,

raccolse la terra, e con i pugni pieni,

la gettò dentro alle desiderose fauci (canne).

Come quel cane che abbaiando esprime la sua fame (agogna),

e si calma (racqueta) dopo aver addentato il pasto,

poiché solo a divorarlo è intento e si affatica (pugna),

allo stesso modo si acquietarono quei musi sporchi

del demonio Cerbero che assorda

le anime in modo tale che esse vorrebbero essere sorde.

Piccolo commento

Dante e Virgilio arrivano al terzo cerchio, dove sono puniti i golosi. Qui una pioggia nera, mista a grandine e neve, cade eternamente sui dannati prostrati nel fango. Questi sono squartati e scuoiati da Cerbero che li assordisce con il suo latrare incessante. Cerbero, il cane a tre teste, è un personaggio del mito e della poesia classica, ritratto con violenza realistica che imprime alla sua figura vitalità animalesca.

Dante ne fa un mostro misto di elementi umani e bestiali: ne sottolinea la voracità insaziabile, la crudeltà ferina, le note ripugnanti dell’aspetto (la barba unta e atra).

Il gesto di Virgilio che getta nelle fauci del mostro un pugno di terra riecheggia il gesto della Sibilla che nell’Eneide getta nelle gole di Cerbero una focaccia, mentre accompagna Enea negli Inferi.

Dante Alighieri- Inferno. Canto III – La porta dell’inferno (vv. 1-12)

“Per me si va ne la città dolente,
per me si va ne l’etterno dolore,
per me si va tra la perduta gente.
Giustizia mosse il mio alto fattore:
fecemi la divina podestate,
la somma sapienza e ’l primo amore.
Dinanzi a me non fuor cose create
se non etterne, e io etterno duro.
Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate”.
Queste parole di colore oscuro
vid’io scritte al sommo d’una porta;
per ch’io: «Maestro, il senso lor m’è duro».

Parafrasi

Attraverso me si va nella città dolente (l’inferno)

attraverso me si va nel dolore eterno

attraverso me si va tra la gente dannata.

Il mio alto fattore (Dio) fu mosso dalla giustizia:

mi creò la potenza divina (il padre)

la somma sapienza (il figlio) e il primo amore (lo spirito santo).

Prima di me non furono cose create

se non eterne ed io duro eternamente.

Lasciate ogni speranza, voi che entrate.

Queste parole minacciose

io vidi scritte nella parte più alta di una porta;

per cui io:”Maestro, il loro senso mi risulta terribile”

Piccolo commento

Dante e Virgilio arrivano davanti alla porta dell’Inferno sulla sommità della quale sono scritte parole terribili che ribadiscono il concetto di dannazione eterna e cancellano ogni speranza. L’idea viene a Dante probabilmente dalle epigrafi metriche poste sopra le porte delle città medievali.

I primi tre versi sono caratterizzati dalla martellante anafora introdotta dalla locuzione “Per me si va”.

Nella seconda terzina sono presenti le perifrasi (giri di parole) che indicano la Trinità: Padre, Figlio e Spirito Santo. Infatti l’Inferno non è solo frutto della potenza di Dio ma anche della sua sapienza che regola l’armonia dell’universo e del suo amore che esprime un’infallibile giustizia.

L’Inferno fu prodotto dalla caduta di Lucifero sulla terra, pochi istanti dopo la creazione degli angeli.

Tutte le cose create prima dell’Inferno (come angeli e cieli) sono eterne e eterno è esso stesso.

Dante Alighieri- Inferno. Canto I – Le tre fiere (vv. 31-60)

Ed ecco, quasi al cominciar de l’erta,
una lonza leggera e presta molto,
che di pel macolato era coverta;

e non mi si partia dinanzi al volto,
anzi ’mpediva tanto il mio cammino,
ch’i’ fui per ritornar più volte vòlto.

Temp’era dal principio del mattino,
e ’l sol montava ’n sù con quelle stelle
ch’eran con lui quando l’amor divino

mosse di prima quelle cose belle;
sì ch’a bene sperar m’era cagione
di quella fiera a la gaetta pelle

l’ora del tempo e la dolce stagione;
ma non sì che paura non mi desse
la vista che m’apparve d’un leone.

Questi parea che contra me venisse
con la test’alta e con rabbiosa fame,
sì che parea che l’aere ne tremesse.

Ed una lupa, che di tutte brame
sembiava carca ne la sua magrezza,
e molte genti fé già viver grame,

questa mi porse tanto di gravezza
con la paura ch’uscia di sua vista,
ch’io perdei la speranza de l’altezza.

E qual è quei che volontieri acquista,
e giugne ’l tempo che perder lo face,
che ’n tutti suoi pensier piange e s’attrista;

tal mi fece la bestia sanza pace,
che, venendomi ’ncontro, a poco a poco
mi ripigneva là dove ’l sol tace.

Parafrasi

Ed ecco, quasi all’inizio della salita,

una lonza (bestia simile ad un leopardo) agile e veloce,

coperta di pelo macchiato; (allegoria della lussuria)

e non si allontanava davanti al viso,

anzi impediva tanto il mio cammino,

che più volte mi rivolsi per tornare indietro.

Era la prima ora del mattino,

e il sole saliva su insieme a quelle stelle

che si trovavano con lui (il sole) quando Dio

mosse per la prima volta gli astri del cielo (al momento della creazione);

in modo tale che mi era motivo di ben sperare

riguardo il pericolo di quella fiera dalla pelle leggiadra (piacevole a vedersi)

l’ora del giorno e la dolcezza della stagione;

ma non al punto che non mi desse paura

l’apparizione della vista di un leone (la superbia).

Questa sembrava che venisse contro di me

con la testa alta e con la volontà di nuocere,

in modo tale che sembrava l’aria ne tremasse.

Ed una lupa, che di tutte le voglie

sembrava carica nella sua magrezza,

e molte persone fece già vivere afflitte, (l’avarizia)

questa mi provocò tanta angoscia

con la paura che si sprigionò dal suo aspetto

che io perdei la speranza di raggiungere la sommità del colle.

E come colui che accumula volentieri (come l’avaro o il giocatore),

e arriva il momento che gli fa perdere tutto,

che in tutti i suoi pensieri si addolora profondamente;

allo stesso modo mi fece diventare la bestia insaziabile,

che, venendomi incontro lentamente,

mi sospingeva dove il sole non arriva (nella selva).

Piccolo commento

Dante comincia l’ascesa al colle quando, quasi all’inizio della salita incontra le tre bestie feroci, allegorie di tre peccati capitali: la lussuria, la superbia e l’avarizia.

Le tre fiere ostacolano la conversione dell’uomo singolo e distruggono i fondamenti dell’ordine politico e morale della società. L’allegoria della lupa è da intendersi in senso ampio, come cupidigia che secondo Dante rappresentava la causa più profonda della corruzione della società. Infatti il personaggio Dante è ostacolato dalle prime due bestie ma solo la terza lo costringe a scendere di nuovo verso la selva oscura.

Dante Alighieri- Inferno. Canto I -Il colle illuminato dal sole (vv. 13-30)

Ma poi ch’i’ fui al piè d’un colle giunto,
là dove terminava quella valle
che m’avea di paura il cor compunto,

guardai in alto e vidi le sue spalle
vestite già de’ raggi del pianeta
che mena dritto altrui per ogne calle.

Allor fu la paura un poco queta,
che nel lago del cor m’era durata
la notte ch’i’ passai con tanta pieta.

E come quei che con lena affannata,
uscito fuor del pelago a la riva,
si volge a l’acqua perigliosa e guata,

così l’animo mio, ch’ancor fuggiva,
si volse a retro a rimirar lo passo
che non lasciò già mai persona viva.

Poi ch’èi posato un poco il corpo lasso,
ripresi via per la piaggia diserta,
sì che ’l piè fermo sempre era ’l più basso.

Parafrasi

Ma dopo che arrivai ai piedi di un colle (rappresenta la vita virtuosa),

là dove terminava quella valle (la selva)

che mi aveva trafitto il cuore di paura,

guardai verso l’alto e vidi i suoi pendii

inondati già dai raggi del pianeta (il sole, allegoria della Grazia divina)

che guida sempre l’uomo per la retta via.

Allora la paura fu un po’ acquetata

che nella cavità interna del cuore mi era perdurata

la notte che trascorsi con tanta angoscia.

E come colui che con respiro affannoso

uscito fuori dal mare (dove stava affogando) e sulla riva

si volta verso l’acqua pericolosa e guarda con intensità,

così il mio animo, che ancora rifuggiva (dal pensiero della selva oscura),

si rivolge ancora indietro a contemplare ancora il passaggio (la selva)

che non lasciò mai una persona viva. (perché passaggio dalla vita alla morte dell’anima).

Dopo che ebbi fatto riposare un po’ il corpo stanco,

ripresi il cammino per il pendio deserto (tra la valle e il colle),

in modo tale che il piede fermo era sempre il più basso (perché sta salendo)

Piccolo commento

Dante, profondamente turbato dal pericolo mortale che lo sovrasta, si rasserena alla vista del monte illuminato dai raggi del sole, allegoria della Grazia divina che mostra e indirizza verso la vita virtuosa. Il sole è chiamato pianeta perché il poeta riprende la cosmologia tolemaica secondo cui la Terra è al centro dell’universo con gli altri pianeti che le girano intorno.

Ripresosi dalla paura per lo scampato pericolo ed essersi riposato un po’, Dante riprende il cammino cercando di salire sul monte della vita virtuosa, l’unica che può donare la felicità terrena.

Dante Alighieri- Inferno. Canto I – La selva oscura (vv. 1-12)

Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.

Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!

Tant’ è amara che poco è più morte;
ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai,
dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte.

Io non so ben ridir com’ i’ v’intrai,
tant’ era pien di sonno a quel punto
che la verace via abbandonai.

Parafrasi

A metà del cammino della nostra vita (circa 35 anni)

mi ritrovai in una selva oscura

poiché la diritta via (che conduce alla virtù) era smarrita.

Ah, quanto è arduo dire com’era

questa selva selvaggia aspra e difficile

che solo a ripensarvi rinnova la paura!

Tanto è piena di tormento che poco più angosciosa è la morte;

ma per trattare del bene che vi trovai (il soccorso del cielo tramite Virgilio)

dirò prima delle altre cose che vi ho visto (le tre fiere).

Non so ridire bene come vi entrai,

tanto ero pieno di sonno (dell’anima, offuscata dal peccato) a quel punto

che la vera via abbandonai.

Piccolo commento

Il viaggio di Dante si svolge nella settimana santa dell’anno 1300. Il poeta, smarrita la retta via, si ritrova in una selva oscura. La selva è simbolo di una condizione di traviamento morale e intellettuale nel protagonista e, più in generale, della corruzione della civiltà cristiana.

Il punto del verso 11 si riferisce al periodo dopo la morte di Beatrice quando al poeta venne a mancare il soccorso delle donna amata che lo indirizzava sulla retta via. Persa la sua guida, Dante rivolge i suoi passi per via non vera e persegue immagini del bene fasulle.