Dante Alighieri, Inferno XXVI, Ulisse, vv. 112-126

«”O frati,” dissi, “che per cento milia 112
perigli siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigilia

d’i nostri sensi ch’è del rimanente 115
non vogliate negar l’esperïenza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.

Considerate la vostra semenza: 118
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza”.»


Li miei compagni fec’io sì aguti, 121
con questa orazion picciola, al cammino,
che a pena poscia li avrei ritenuti;

e volta nostra poppa nel mattino, 124
de’ remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino.

Parafrasi

“O fratelli” dissi (parla Ulisse) “che per cento mila

pericoli siete arrivati presso il confine occidentale (del mondo conosciuto)

a questa così importante breve vigilia (veglia)

dei nostri sensi di ciò che rimane da vedere

non negate l’esperienza

dietro al sole (l’occidente), del mondo disabitato.

Considerate la vostra origine:

non siete nati per vivere come animali

ma per seguire la virtù e (apprendere) la conoscenza”

I miei compagni feci io così accesi di desiderio

con questo breve discorso, al cammino,

che appena poi li avrei trattenuti;

e rivolta la nostra poppa verso oriente (quindi la prua in direzione dell’occidente)

rendemmo i remi ali al folle volo

sempre procedendo verso sinistra

Commento

Ci troviamo nell’ottava bolgia dove si punisce il cattivo uso dell’ingegno utilizzato in contrasto con le norme morali e religiose. In questo canto troviamo Ulisse che con un abile trucco riuscì a far entrare guerrieri armati nella città di Troia e rendendo possibile la vittoria degli Achei nella guerra che ormai si trascinava per dieci anni.

Ma l’atteggiamento di Dante non è di disprezzo di fronte all’eccellenza dell’ingegno che è un dono di Dio. Infatti decide di raccontare non la colpa per cui Ulisse è punito all’Inferno ma la sua smisurata brama di conoscenza che lo portano a varcare con pochi compagni le colonne d’Ercole, ovvero il limite delle acque conosciute e a lanciarsi nell’oceano aperto.

I versi riportano “l’orazion picciola” con cui Ulisse convince i compagni a tentare l’ennesima impresa, quella di andare ad esplorare terre disabitate dove nessun uomo è stato mai.

Il suo discorso riesce a fare leva in modo così potente sugli animi dei compagni che dopo li avrebbe trattenuti a stento.

Ma all’impresa che tenta non può essere sufficiente solo l’umana ragione e, non potendo avere l’aiuto della Grazia, il suo “folle volo” finisce in tragedia e muore travolto dalle onde.

Il viaggio di Ulisse fallisce perché si affida solo alle forze e all’ingegno dell’uomo e si contrappone a quello di Dante che è sostenuto dalla Grazia divina.

Dante Alighieri, Purgatorio I, vv. 115-117

L’alba vinceva l’ora mattutina

che fuggia innanzi, sì che di lontano

conobbi il tremolar della marina.

Parafrasi

L’alba soverchiava (=prevaleva su) l’ora mattutina (l’ultima ora della notte)

che fuggiva davanti (alla luce dell’alba), in modo tale che da lontano

riconobbi (=riuscii a distinguere) il tremolare del mare.

Commento

Dante e Virgilio, dopo aver concluso il viaggio nell’Inferno, si ritrovano sulla spiaggia ai piedi della montagna del Purgatorio.

Il sole non è ancora sorto e i due viandanti si trovano sulle rive dell’oceano, in un’isoletta dell’emisfero meridionale, dove secondo Dante si trova il Purgatorio.

A guardia del Purgatorio, Dante mette Catone l’Uticense, un uomo il cui aspetto genera subito riverenza (grande rispetto). Catone fu tenace difensore degli ideali repubblicani nella Roma del I secolo avanti Cristo. Per questo si oppose fino alla fine a Cesare e, quando capì che non poteva fare più nulla, si tolse la vita in Utica, nel Nord Africa.

Catone chiede a Dante e Virgilio come hanno fatto a risalire l’Inferno ed essere approdati alle porte del Purgatorio.

Virgilio lo rassicura dicendo che hanno intrapreso questo viaggio per l’intervento di una donna (Beatrice) che è discesa dal cielo, quindi il loro andare non è contro la volontà divina.

Catone allora dice loro che si devono purificare prima di proseguire il viaggio. Li indirizza verso la spiaggia dove Virgilio dovrà lavare il viso di Dante con la rugiada e cingere i suoi fianchi con un giunco, pianta simbolo di umiltà.

E dove Virgilio strappa un giunco, subito ne nasce un altro.

I versi riportati sopra si riferiscono al momento in cui la luce dell’alba prevale sull’ultima ora della notte (l’ora mattutina della preghiera del breviario) per cui, quasi come un prodigio, da lontano Dante riconosce, alla luce nascente, il tremolare del mare.

Una terzina che rimane scolpita nella memoria del lettore del Sommo Poeta.

Dante Alighieri- Purgatorio- Canto XXIV- Bonagiunta e il Dolce stil novo, vv. 49-63

Ma dì s’i’ veggio qui colui che fore
trasse le nove rime, cominciando
Donne ch’avete intelletto d’amore’». 51

E io a lui: «I’ mi son un che, quando
Amor mi spira, noto, e a quel modo
ch’e’ ditta dentro vo significando». 54

«O frate, issa vegg’io», diss’elli, «il nodo
che ‘l Notaro e Guittone e me ritenne
di qua dal dolce stil novo ch’i’ odo! 57

Io veggio ben come le vostre penne
di retro al dittator sen vanno strette,
che de le nostre certo non avvenne; 60

e qual più a gradire oltre si mette,
non vede più da l’uno a l’altro stilo»;
e, quasi contentato, si tacette. 63

Parafrasi

Ma dimmi se vedo qui davanti a me colui che inventò

un nuovo modo di far poesia, con la canzone che comincia

Donne ch’avete intelletto d’amore’ “.

E io a lui: “ Io sono uno che quando

Amore mi ispira prendo nota, e nel modo

che (questo) detta dentro di me riporto fedelmente”.

“ Fratello, ora vedo”, rispose egli” l’impedimento

che il Notaro (Giacomo da Lentini), Guittone (d’Arezzo) e me

tenne lontano dal dolce stil novo che io sento.

Vedo bene come le vostre penne

dietro al dettatore (l’Amore) si tengono strette,

la qual cosa non avvenne con le nostre (penne);

e colui che si accingesse a procedere oltre (leggendo in modo superficiale)

non vedrebbe differenza tra l’uno e l’altro stile”

E, come se fosse soddisfatto, tacque.

Piccolo commento

Siamo nella cornice dei golosi colpevoli di eccessivo amore per il cibo e le bevande: sono tormentati da fame e sete continua, stimolata dal profumo di dolci frutti che pendono da due alberi e da una fonte d’acqua che sgorga dalla roccia.

Tra i golosi Dante incontra Bonagiunta Orbicciani, vissuto a Lucca, iniziatore della scuola poetica Siculo-Toscana.

Egli si rivolge a Dante chiedendogli se è proprio lui ad aver iniziato le nove rime, con la canzone Donne ch’avete intelletto d’amore contenuta nel cap. XIX della Vita Nuova.
Dante risponde dicendo di essere un poeta che, quando scrive, è ispirato direttamente da amore e compone sotto la sua dettatura.

Bonagiunta a questo punto dichiara di aver compreso qual è il nodo che ha trattenuto lui, Giacomo da Lentini e Guittone di qua dal dolce stil novo ch’i’ odo. È questa l’unica attestazione del termine Dolce stil novo, che è stata quindi estesa alla maniera poetica iniziata da Guinizelli e ripresa da Dante e Cavalcanti a Firenze, alla fine del Duecento.

Con lo Stilnovo si afferma un nuovo concetto di amore impossibile nonché un nuovo concetto di donna, concepita adesso come donna angelo, donna angelica: la donna, nella visione stilnovistica, ha la funzione di indirizzare l’animo dell’uomo verso la sua nobilitazione e sublimazione: quella dell’Amore assoluto identificabile pressoché con l’immagine della purezza di Dio

A livello stilistico, lo stile poetico dello Stilnovo è caratterizzato da rime dolci e piane, segnate da una profonda cantabilità del verso.

Dante Alighieri- Inferno- Canto XIII- La selva dei suicidi, vv. 1-15

Non era ancor di là Nesso arrivato,
quando noi ci mettemmo per un bosco
che da neun sentiero era segnato. 3

Non fronda verde, ma di color fosco;
non rami schietti, ma nodosi e ’nvolti;
non pomi v’eran, ma stecchi con tòsco. 6

Non han sì aspri sterpi né sì folti
quelle fiere selvagge che ’n odio hanno
tra Cecina e Corneto i luoghi cólti. 9

Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno,
che cacciar de le Strofade i Troiani
con tristo annunzio di futuro danno. 12

Ali hanno late, e colli e visi umani,
piè con artigli, e pennuto ’l gran ventre;
fanno lamenti in su li alberi strani. 15

Parafrasi

Non era ancora dall’altra parte Nesso arrivato,

quando noi ci incamminammo per un bosco

che non era segnato da nessun sentiero.

Non fronda verde, ma di colore scuro;

non rami dritti, ma intrecciati e contorti;

non frutti vi erano ma spine con veleno:

non abitano così aspri né folti arbusti

quegli animali selvatici che rifuggono

tra (il torrente) Cecina e (la Cittadina di) Corneto i luoghi coltivati,

Qui fanno i loro nidi le ripugnanti Arpie,

che cacciarono dalle isole Strofadi i Troiani

con una triste profezia di pene future.

Hanno ali larghe, colli e visi umani,

piedi con artigli e pennuto l’ampio petto;

fanno lamenti terrificanti sugli alberi.

Piccolo commento

Dopo aver attraversato il fiume infernale Flegetonte in groppa al centauro Nesso, Dante e Virgilio si inoltrano in una selva di sterpi contorti e scuri con spine velenose. Qui si annidano le Arpie, ripugnanti uccelli con volto di donne e corpo di uccelli rapaci.

Virgilio racconta nell’Eneide che Enea e i suoi compagni, giunti sulle isole Strofadi, furono disturbati da questi uccelli che sporcarono di sterco le loro mense.

In questo bosco, si sentono lamenti umani che provengono dai rami lacerati.

Nei pruni si nascondono gli spiriti dei suicidi che neanche dopo il giudizio universale torneranno a rivestirsi del corpo, visto che si sono dati la morte da soli.

Dante Alighieri- Inferno- Canto X- Cavalcante Cavalcanti, vv. 52-72

Allor surse a la vista scoperchiata
un’ombra, lungo questa, infino al mento:
credo che s’era in ginocchie levata. 54

Dintorno mi guardò, come talento
avesse di veder s’altri era meco;
e poi che ’l sospecciar fu tutto spento, 57

piangendo disse: «Se per questo cieco
carcere vai per altezza d’ingegno,
mio figlio ov’è? e perché non è teco?». 60

E io a lui: «Da me stesso non vegno:
colui ch’attende là, per qui mi mena
forse cui Guido vostro ebbe a disdegno». 63

Le sue parole e ’l modo de la pena
m’avean di costui già letto il nome;
però fu la risposta così piena. 66

Di subito drizzato gridò: «Come?
dicesti “elli ebbe”? non viv’elli ancora?
non fiere li occhi suoi lo dolce lume?». 69

Quando s’accorse d’alcuna dimora
ch’io facea dinanzi a la risposta,
supin ricadde e più non parve fora. 72

Parafrasi

A quel punto apparve fuori dall’apertura dell’arca

un’ombra, accanto a Farinata, visibile fino al mento:

credo che si fosse alzato sulle ginocchia.

Guardò intorno a me, come se desiderio

avesse di vedere se qualcun altro fosse con me;

e dopo che il dubbio fu del tutto sopito,

disse piangendo: “Se attraverso questo buia

prigione vai per l’altezza del tuo ingegno,

dov’è mio figlio? E perché non è con te?”

Ed io a lui: “Non vengo per mia volontà e mio merito:

colui che attende là (Virgilio) mi guida attraverso questo luogo

forse a colei che (Beatrice, simbolo della fede) il vostro Guido ebbe in disprezzo”.

Le sue parole e il tipo della pena

mi avevano di costui già fatto comprendere il nome;

perciò fu la (mia) risposta così esplicita.

Immediatamente drizzatosi in piedi gridò: ”Come

hai detto? Egli ebbe? Egli non vive ancora?

Non ferisce i suoi occhi la dolce luce del sole?”

Quando si accorse che qualche indugio

mostravo prima di rispondere,

cadde riverso e non apparve più.

Piccolo commento

Ci troviamo nel cerchio degli eretici e in questo canto Dante si concentra sugli epicurei. Con questo termine, all’epoca di Dante, si definivano coloro i quali negavano l’immortalità dell’anima.

Tra questi troviamo Farinata degli Uberti, grande capo ghibellino che si opponeva alla parte guelfa a cui apparteneva Dante; e Cavalcante Cavalcanti, padre di Guido, poeta e caro amico di Dante.

Cavalcante è sicuro che l’ingegno del figlio lo renda degno del viaggio ultraterreno al pari di Dante. Questi gli risponde che la sua venuta è stata possibile non per i suoi meriti ma per essersi affidato ad una guida Celeste (Beatrice, simbolo della fede) che Guido, essendo eretico, forse ha disdegnato.

Così come con Farinata, anche in questo caso la giustizia di Dio colpisce l’attaccamento ai beni e alle passioni terreni e prolunga in eterno l’angoscia di questi uomini che avevano rifiutato nel presente la dimensione dell’eterno.

Gli eretici sono chiusi in sepolcri arroventati. Sono puniti col fuoco nell’Inferno, come nel mondo vengono mandati al rogo.

Dante Alighieri- Inferno- Canto V- Minosse, vv. 1-15

Così discesi del cerchio primaio
giù nel secondo, che men loco cinghia
e tanto più dolor, che punge a guaio. 3

Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia:
essamina le colpe ne l’intrata;
giudica e manda secondo ch’avvinghia. 6

Dico che quando l’anima mal nata
li vien dinanzi, tutta si confessa;
e quel conoscitor de le peccata 9

vede qual loco d’inferno è da essa;
cignesi con la coda tante volte
quantunque gradi vuol che giù sia messa. 12

Sempre dinanzi a lui ne stanno molte:
vanno a vicenda ciascuna al giudizio,
dicono e odono e poi son giù volte. 15

Parafrasi

Così discesi dal primo cerchio (il Limbo)

giù nel secondo (dove sono puniti i lussuriosi) che racchiude meno spazio (rispetto al precedente)

e una pena più tormentosa, che stimola ai lamenti.

Qui sta Minosse che desta orrore, e ringhia:

esamina le colpe all’entrata;

giudica e stabilisce le pene secondo il numero di avvolgimento della coda.

Voglio dire che quando l’anima dannata

gli viene davanti, si confessa di tutto;

e quel conoscitore dei peccati

vede quale luogo dell’inferno è adatto ad essa;

si cinge con la coda tante volte

quanti cerchi vuole che sia messa giù.

Sempre davanti a lui ne stanno molte (di anime):

vanno a turno ciascuna a giudizio;

dicono (le loro colpe) e odono (la sentenza) e poi sono precipitate giù.

Piccolo commento

Sulle soglie del secondo cerchio dell’Inferno troviamo Minosse, il leggendario re di Creta.

Confessa le anime e decreta la pena, indicando la sede assegnata a ciascun peccatore.

Minosse è rappresentato in funzione di giudice infernale da Virgilio nell’Eneide.

Dante accoglie la tradizione classica per quanto riguarda la funzione e il personaggio, ma lo trasforma in una potenza demoniaca con tratti mostruosi e grotteschi.

All’inizio del canto Dante accenna alla struttura dell’Inferno che è un cono rovesciato, costituito da ripiani o ciglioni circolari che si restringono a mano a mano che si scende.

Inoltre più ci si inabissa più si puniscono peccati più gravi e la pena è maggiormente dolorosa.

Dante Alighieri- Inferno- Canto VII- Pluto, vv. 1-12

«Papé Satàn, papé Satàn aleppe!»,
cominciò Pluto con la voce chioccia;
e quel savio gentil, che tutto seppe,


disse per confortarmi: «Non ti noccia
la tua paura; ché, poder ch’elli abbia,
non ci torrà lo scender questa roccia».


Poi si rivolse a quella ’nfiata labbia,
e disse: «Taci, maladetto lupo!
consuma dentro te con la tua rabbia.


Non è sanza cagion l’andare al cupo:
vuolsi ne l’alto, là dove Michele
fé la vendetta del superbo strupo».


Quali dal vento le gonfiate vele
caggiono avvolte, poi che l’alber fiacca,
tal cadde a terra la fiera crudele.

Parafrasi

“Oh Satan, oh Satan aleph (prima lettera dell’alfabeto ebraico ed esclamazione di dolore)“

cominciò Pluto con la voce rauca;

e quel nobile sapiente (Virgilio), che conosceva tutto,

disse per confortarmi: “Non ti danneggi

la tua paura; perché, per quanto potere egli abbia,

non ci potrà impedire lo scendere dal terzo al quarto cerchio”.

Poi si rivolse a quel volto (labbia) tumido per l’ira,

e disse: “Taci, maledetto lupo (perché demone dell’avarizia);

logarati dentro di te con la tua rabbia.

Non è senza motivo l’andare nelle profondità infernali (al cupo):

lo si vuole in cielo, dove l’arcangelo Michele

punì la superba ribellione (degli angeli che si rivoltarono contro Dio)”.

Come le vele gonfiate dal vento

cadono avviluppate, dopo che l’albero si spezza,

così cadde a terra la bestia crudele.

Piccolo commento

Dante e Virgilio si trovano sulla soglia del quarto cerchio dove trovano Pluto, simbolo di quella brama di ricchezza che è la maggior nemica della felicità umana e dell’ordine sociale.

Nel quarto cerchio infatti si puniscono gli avari e i prodighi la cui pena è quella di rotolare enormi pesi che simboleggia lo sforzo dei peccatori di raggiungere un oggetto, come la ricchezza, di per sé vano. Tra gli avari compaiono molti chierici, papi e cardinali che la cupidigia condusse alla dannazione.

Il canto si apre con la famosa frase pronunciata da Pluto, apparentemente priva di senso. In realtà il “maladetto lupo” esprime con queste parole la sua meraviglia (papé) e il dolore (aleppe) che gli procura la vista dei due pellegrini che stanno scendendo nell’Inferno, offendendo le sue rigide leggi, e invoca per questo l’intervento di Satana.

L’intervento di Virgilio riaffermano con calme parole, opposte alla rabbia diabolica, la volontà divina che ha voluto e autorizzato il loro viaggio

L’utilizzo del termine “chioccia” è una spia dello stile aspro che caratterizza tutta la prima parte del canto, attraverso la ricerca di rime difficili e quindi intensamente espressive.

Dante Alighieri- Inferno- Canto VI- Cerbero, vv. 7-33

Io sono al terzo cerchio, de la piova
etterna, maladetta, fredda e greve;
regola e qualità mai non l’è nova. 9

Grandine grossa, acqua tinta e neve
per l’aere tenebroso si riversa;
pute la terra che questo riceve. 12

Cerbero, fiera crudele e diversa,
con tre gole caninamente latra
sovra la gente che quivi è sommersa. 15

Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra,
e ’l ventre largo, e unghiate le mani;
graffia li spirti ed iscoia ed isquatra. 18

Urlar li fa la pioggia come cani;
de l’un de’ lati fanno a l’altro schermo;
volgonsi spesso i miseri profani. 21

Quando ci scorse Cerbero, il gran vermo,
le bocche aperse e mostrocci le sanne;
non avea membro che tenesse fermo. 24

E ’l duca mio distese le sue spanne,
prese la terra, e con piene le pugna
la gittò dentro a le bramose canne. 27

Qual è quel cane ch’abbaiando agogna,
e si racqueta poi che ’l pasto morde,
ché solo a divorarlo intende e pugna, 30

cotai si fecer quelle facce lorde
de lo demonio Cerbero, che ’ntrona
l’anime sì, ch’esser vorrebber sorde.

Parafrasi

Io mi trovo nel terzo cerchio, della pioggia

eterna, maledetta (perché nuoce), fredda e pesante;

ritmo e natura non gli è mai nuova (cade sempre uguale a sé stessa).

Grandine grossa, acqua scura e neve

attraverso l’aria tenebrosa si riversa;

puzza la terra che questa mescolanza riceve.

Cerbero, bestia crudele e mostruosa,

con tre teste (gole) latra come fanno i cani

sopra la gente che qui è affogata (sommersa).

Gli occhi ha di color rosso vivo (vermigli), la barba unta e sudicia,

il ventre ampio, e le mani con artigli;

graffia gli spiriti, scuoia e squarta.

La pioggia li fa urlare come cani:

dell’un dei lati (del corpo) fanno a l’altro riparo;

si volgono spesso i miseri peccatori.

Quando ci scorse Cerbero, il grande verme,

le bocche aprì e ci mostrò le zanne;

non aveva membro che tenesse fermo.

E la mia guida (duca) distese le sue mani,

raccolse la terra, e con i pugni pieni,

la gettò dentro alle desiderose fauci (canne).

Come quel cane che abbaiando esprime la sua fame (agogna),

e si calma (racqueta) dopo aver addentato il pasto,

poiché solo a divorarlo è intento e si affatica (pugna),

allo stesso modo si acquietarono quei musi sporchi

del demonio Cerbero che assorda

le anime in modo tale che esse vorrebbero essere sorde.

Piccolo commento

Dante e Virgilio arrivano al terzo cerchio, dove sono puniti i golosi. Qui una pioggia nera, mista a grandine e neve, cade eternamente sui dannati prostrati nel fango. Questi sono squartati e scuoiati da Cerbero che li assordisce con il suo latrare incessante. Cerbero, il cane a tre teste, è un personaggio del mito e della poesia classica, ritratto con violenza realistica che imprime alla sua figura vitalità animalesca.

Dante ne fa un mostro misto di elementi umani e bestiali: ne sottolinea la voracità insaziabile, la crudeltà ferina, le note ripugnanti dell’aspetto (la barba unta e atra).

Il gesto di Virgilio che getta nelle fauci del mostro un pugno di terra riecheggia il gesto della Sibilla che nell’Eneide getta nelle gole di Cerbero una focaccia, mentre accompagna Enea negli Inferi.

Dante Alighieri- Inferno Canto V- Paolo e Francesca (vv. 100- 108)

Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende,
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e ‘l modo ancor m’offende. 102

Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona. 105

Amor condusse noi ad una morte.
Caina attende chi a vita ci spense”.
Queste parole da lor ci fuor porte 108

Parafrasi

“L’amore, che al cuore nobile rapidamente si attacca,

fece innamorare costui (Paolo) della mia bellezza fisica

che mi fu tolta (con la violenza); e il modo ancora mi offende.

L’amore, che non tollera che chi è amato non riami,

mi prese della bellezza di costui in modo così forte,

che, come vedi, ancora non mi abbandona.

Amore ci condusse ad una medesima morte:

Caina (il luogo dell’ Inferno dove si puniscono i traditori dei parenti) attende chi ci uccise”

Queste parole da Francesca ( che parla anche per Paolo) ci furono dette.

Piccolo commento

Dante e Virgilio si trovano nel secondo cerchio dell’Inferno dove si puniscono i lussuriosi. Come in vita furono travolte dalla passione, così nell’Inferno le anime dei lussuriosi vengono trascinati in continuazione da una bufera di vento. Virgilio nomina alcuni cavalieri e donne nobili che morirono per le conseguenze del loro amore.

Nella seconda parte del canto viene evocata la tragica storia dei due amanti di Rimini, Francesca e Paolo, che furono sorpresi dal marito di lei, Cianciotto Malatesta, e uccisi.

In questi versi Francesca racconta della fatalità della passione che prese entrambi e la forza dell’ amore che non permette a colui che è amato di non ricambiare.

Il personaggio Dante partecipa dolorosamente alla vicenda dei due amanti e ne è profondamente turbato. Ma il Dante autore mette in rilievo il momento culminante della scelta, quella in cui il nobile affetto si trasforma in peccato. Per questo motivo sono da considerare anacronistiche le interpretazioni romantiche in cui il poeta giustificherebbe a livello umano i due giovani.

Queste considerazioni non tolgono niente alla bellezza scultorea di questi versi che sono tra i più belli e noti di tutta la Divina Commedia.

Dante Alighieri- Inferno. Canto III – La porta dell’inferno (vv. 1-12)

“Per me si va ne la città dolente,
per me si va ne l’etterno dolore,
per me si va tra la perduta gente.
Giustizia mosse il mio alto fattore:
fecemi la divina podestate,
la somma sapienza e ’l primo amore.
Dinanzi a me non fuor cose create
se non etterne, e io etterno duro.
Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate”.
Queste parole di colore oscuro
vid’io scritte al sommo d’una porta;
per ch’io: «Maestro, il senso lor m’è duro».

Parafrasi

Attraverso me si va nella città dolente (l’inferno)

attraverso me si va nel dolore eterno

attraverso me si va tra la gente dannata.

Il mio alto fattore (Dio) fu mosso dalla giustizia:

mi creò la potenza divina (il padre)

la somma sapienza (il figlio) e il primo amore (lo spirito santo).

Prima di me non furono cose create

se non eterne ed io duro eternamente.

Lasciate ogni speranza, voi che entrate.

Queste parole minacciose

io vidi scritte nella parte più alta di una porta;

per cui io:”Maestro, il loro senso mi risulta terribile”

Piccolo commento

Dante e Virgilio arrivano davanti alla porta dell’Inferno sulla sommità della quale sono scritte parole terribili che ribadiscono il concetto di dannazione eterna e cancellano ogni speranza. L’idea viene a Dante probabilmente dalle epigrafi metriche poste sopra le porte delle città medievali.

I primi tre versi sono caratterizzati dalla martellante anafora introdotta dalla locuzione “Per me si va”.

Nella seconda terzina sono presenti le perifrasi (giri di parole) che indicano la Trinità: Padre, Figlio e Spirito Santo. Infatti l’Inferno non è solo frutto della potenza di Dio ma anche della sua sapienza che regola l’armonia dell’universo e del suo amore che esprime un’infallibile giustizia.

L’Inferno fu prodotto dalla caduta di Lucifero sulla terra, pochi istanti dopo la creazione degli angeli.

Tutte le cose create prima dell’Inferno (come angeli e cieli) sono eterne e eterno è esso stesso.